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Il disegno di legge sul settore biologico suscita qualche perplessità

6 marzo 2019


È solo un disegno di legge – che ha ottenuto una prima approvazione alla Camera ed è attualmente in discussione al Senato – ma sta già suscitando qualche preoccupazione e provocando qualche polemica. Parliamo del ddl "Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell'acquacoltura con metodo biologico", che ha l'ambizione di diventare la nuova normativa quadro in tema di agricoltura "bio".

A fronte di un certo consenso, solo in parte condiviso dal mondo agricolo, le perplessità arrivano da molti esperti: scienziati, economisti e tecnici del settore agroalimentare che evidenziano, documentandoli, alcuni aspetti critici presenti nel provvedimento.

A cominciare dalla definizione di "attività di interesse nazionale" che il Ddl intende attribuire al settore biologico, spingendo verso una parificazione ai metodi produttivi agricoli convenzionali che non corrisponde alla realtà economica odierna, dove il "bio" vale circa il 3% della produzione agricola complessiva realizzata ogni anno in Italia.

Oppure quando – sempre nel disegno di legge – si vuole a equiparare l'agricoltura biologica, che certamente ha un solida base scientifica, all'agricoltura biodinamica che, a ogni evidenza, quella base non ha.

Il tema è complesso e intreccia questioni tecniche ed economiche, perciò abbiamo chiesto un approfondimento al professor Paolo Sckokai, docente alla Smea di Cremona e direttore del Dipartimento di economia agro-alimentare della facoltà di Scienza agrarie alimentari e ambientali dell'Università Cattolica di Piacenza-Cremona.

«Il disegno di legge sul biologico ha destato molte perplessità nella comunità scientifica, in particolare per questa sorta di superiorità che sembra suggerire per il metodo “bio” rispetto alle altre tecniche produttive agricole. Questo non ha alcuna base scientifica e rischia di generare conclusioni fuorvianti nell'opinione pubblica e nei consumatori, che sono giustamente molto sensibili al tema del rapporto tra cibo e salute.

L'agricoltura – prosegue il docente Smea – è una ed ha una missione molto precisa: quella di produrre cibo di qualità dal punto di vista nutrizionale, sicuro dal punto di vista sanitario e in quantità sufficiente per tutti. Ormai da anni la ricerca in agricoltura persegue l’obiettivo della sostenibilità economica, sociale e ambientale delle produzioni, un obiettivo che accomuna tutti gli approcci tecnologici: dal bio al convenzionale e a tutte le altre varianti che via via si sono affermate. Questi approcci tecnologici sono stati studiati per adeguarsi ai diversi ambienti in cui l’agricoltura opera, ciascuno dei quali esige l’adozione del metodo che meglio si adatta a quelle caratteristiche. Non è un caso, ad esempio, che il biologico si sia diffuso soprattutto in ambienti come la collina e la montagna, dove può contribuire a mantenere un’attività agricola remunerativa in territori a rischio di abbandono. Per altri ambienti, invece, sono state proposte le cosiddette tecniche di “agricoltura conservativa”, che, riducendo al minimo l’uso dei prodotti chimici, riescono a promuovere il risparmio di acqua e la conservazione della fertilità dei suoli, mantenendo le stesse rese delle tecniche convenzionali.

Proprio per questo non ha alcun senso affermare che un metodo è superiore ad un altro: come è stato recentemente ribadito dalla FAO, tutti gli approcci devono concorrere, in modo complementare, a vincere la grande sfida dell’agricoltura dei prossimi decenni, quella di nutrire un pianeta che nel 2050 avrà quasi 10 miliardi di abitanti, producendo cibo sano e sicuro e mantenendo un adeguato equilibrio sociale e ambientale. Per questo – conclude il professor Sckokai – serve un grande sforzo di innovazione, che deve interessare tutta l’agricoltura, senza privilegiare alcun metodo specifico».

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